Biodiversità del Veneto

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La vite

Vitis vinifera L. subsp. vinifera
Fam. Vitaceae

Il prosecco è un vitigno di antica origine, forse originario della Venezia Giulia, che almeno dal '700 ha trovato un ambiente favorevole nei colli veneti. Da: Ampelografia italiana Tavole  a cura del Comitato Centrale Ampelografico (1879-1890).
Figura 1: Il prosecco è un vitigno di antica origine, forse originario della Venezia Giulia, che almeno dal '700 ha trovato un ambiente favorevole nei colli veneti. Da: Ampelografia italiana Tavole a cura del Comitato Centrale Ampelografico (1879-1890).

CARATTERI BOTAVitis L.NICI

Il genere Vitis L. comprende 60-70 specie, prevalentemente originarie dell'America centrosettentrionale e dell'Asia orientale e sudorientale; l'unica specie europea è Vitis vinifera L. Le prime Vitaceae fossili risalgono al Cretaceo, mentre il genere Vitis ebbe la massima diversità durante il Miocene. In questo periodo visse anche Vitis praevinifera L., la specie ancestrale da cui vengono fatte derivare gran parte di quelle attuali. Durante le glaciazioni, alcune specie del genere Vitis sopravvissero nelle zone di rifugio in America settentrionale, Asia orientale ed Europa meridionale, in particolare nel Caucaso e in Italia (Grassi et al., 2005).
Tutte le specie del genere sono diploidi, con 2n = 38 (ad eccezione della sez. Muscadinia, che comprende tra le altre Vitis rotundifolia Michx., con 2n = 40) e generalmente interfertili. Oltre a Vitis vinifera, molte altre sono coltivate o utilizzate allo stato spontaneo per i frutti commestibili: alcune sono originarie dell'Asia, come V. amurensis Rupr. (Cina, Corea, Giappone), altre dell'America settentrionale, come V. aestivalis Michx. (Stati Uniti), V. berlandieri Planchon (Nuovo Messico, Texas), V. cordifolia Lam. (Stati Uniti), V. labrusca (Stati Uniti orientali), V. rotundifolia Michx. (USA, Messico), V. rupestris Scheele (USA), V. vulpina L. (Canada e USA).

Vitis vinifera L. Liana lunga fino a 3 m, ma con rami che possono raggiungere parecchie decine di metri. Fusto legnoso, rampicante; rami bruno-rossastri, striati, con cirri prensili. Foglie alterne, circa 2 su 3 opposte ai cirri nella parte inferiore dei rami, alle infiorescenze nella parte superiore; lamina digitata, a contorno complessivamente cuoriforme o reniforme, con 3-5 lobi profondi e irregolarmente dentati; lamina quasi glabra superiormente, con pelosità più densa e spesso persistente inferiormente, ma mai formante uno strato ragnateloso continuo. Fiori in pannocchie dense; calice ridotto, corolla con 5 petali lunghi 5 mm, verdastri, che formano una cuffia che cade con lo schiudersi del fiore. Frutti a bacca ellissoidale o sferica di 6-22 mm. Si distinguono tre sottospecie (Pignatti, 1982; Erhardt et al., 2002), due delle quali presenti in Italia: subsp. vinifera (= subsp. sativa Hegi): Fiori ermafroditi; bacche (acini) lunghi 6-35 mm, di colore variabile tra giallo-verdastro e blu-violetto, con polpa dolce; semi 0-4 per acino, grandi, allungati, piriformi, con becco lungo circa quanto il diametro trasversale; foglie tutte simili.
E' pianta solo coltivata, ma spesso sfugge tendendo ad inselvatichire. L'ermafroditismo e l'autofertilità derivano da una singola mutazione dominante e singoli semenzali nati casualmente possono ripristinare l'antica dioicia (Sauer, 1993).
subsp. sylvestris (Gmelin) Hegi (= Vitis sylvestris Gmelin): Pianta dioica con fiori unisessuali; acini piccoli (6-8 mm), blu-violetti, con polpa acida, in grappoli irregolari e a maturazione scalare; semi 3, piccoli, arrotondati, con becco molto più breve del diametro trasversale; foglie dimorfe (nelle piante maschili più profondamente lobate che nelle femminili), con picciolo breve.
Allo stato spontaneo la subsp. sylvestris è presente in Europa meridionale, fino alla Turchia, Caucaso, Iran settentrionale e Hindukush (Zohary, 1991); è però spesso difficile decidere se si tratta di una specie spontanea o, al contrario, di individui inselvatichiti. Anche le popolazioni che vivono nei boschi caducifogli o sempreverdi su suolo subacido delle penisole italiana e balcanica vengono ritenute spontanee, ma la vicinanza delle colture non permette di escludere reintroduzioni recenti, disseminazioni spontanee o ibridazioni (Pignatti, 1982). Diversamente dalla sottospecie coltivata, la sylvestris cresce bene in terreni umidi, spesso lungo le sponde dei corsi d'acqua e nelle boscaglie palustri.
E' inoltre descritta una subsp. caucasica Vavilov, propria dell'Asia centrale, poco chiaramente distinta rispetto alla subsp. sylvestris ma forse alla base di alcune varietà coltivate di origine orientale.

Il raboso è un vitigno autoctono del Veneto, attestato fin dal '500 e tuttora molto coltivato. Da: Ampelografia italiana Tavole  a cura del Comitato Centrale Ampelografico (1879-1890).
Figura 2: Il raboso è un vitigno autoctono del Veneto, attestato fin dal '500 e tuttora molto coltivato. Da: Ampelografia italiana Tavole a cura del Comitato Centrale Ampelografico (1879-1890).

Le specie americane sono molto più numerose e i frutti di molte di esse erano utilizzati dalle popolazioni aborigene; non sembra però che fossero praticate né la coltura né la vinificazione. Alcune di esse hanno rivestito un importante ruolo anche nella viticoltura europea, dove sono state impiegate come produttori diretti o portainnesti, soprattutto dopo le tre grandi malattie dell'800-900 (oidio, peronospora, fillossera). Si ricordano quelle più importanti nel Veneto:

  • Vitis labrusca L. (uva fragola, isabella) : Liana alta normalmente fino a 5 m. Fusto legnoso, rampicante, con rami bruno-rossastri, striati. Foglie alterne, tutte opposte ai cirri nella parte inferiore del fusto, alle infiorescenze nella parte superiore; lamina lobata, a contorno cuoriforme o reniforme, con 3-5 lobi poco profondi; lamina superiormente quasi glabra, inferiormente con pelosità formante uno strato ragnateloso continuo. Fiori in pannocchie dense; calice ridotto, corolla a 5 petali lunghi 5 mm, verdastri, che formano una cuffia che cade con lo schiudersi del fiore. Frutti a bacca subsferica di 6-15 mm, con sapore foxy per la presenza di antranilato di metile. Molto usata, soprattutto in passato, come portainnesto o come produttore diretto (Americana, Fragola, Fràmbua). Il nome deriva da quello assegnato dai latini alla vite selvatica.
  • Vitis vulpina Scheele (= Vitis riparia Michx.): Pianta dioica lianosa, con cirri presenti in due nodi su tre, ramificati e ben sviluppati. Corteccia che si desquama negli individui vecchi. Foglie inferiormente da glabre a fioccose, ma senza feltro ragnateloso continuo, prive di peli ferruginei, troncate o subcordate alla base, poco lobate o subintere. Frutti a bacca ellissoidale o sferica, con sapore foxy. Ha buona resistenza alla fillossera ed è poco attaccata dalle malattie crittogamiche. Predilige i terreni profondi, freschi, fertili, poco calcarei. Usata come portainnesto resistente alla fillossera o, incrociata con V. rupestris, come ibrido produttore diretto (Clintón, Clinto, Grinto).
  • Vitis rupestris Scheele : Simile alla V. vulpina, ma con portamento compatto e arbustivo e priva o quasi di viticci. Ha una ottima resistenza alle malattie crittogamiche ed alla fillossera radicicola, anche se spesso è attaccato anche pesantemente dalla gallecola. Radica facilmente ed imprime notevole vigoria al nesto; si adatta ai terreni poveri, asciutti e siccitosi, grossolani o sabbiosi, tanto di colle che di piano; tollera dosi abbastanza elevate di calcare, ma nei terreni umidi è sensibile al marciume radicale.
  • Vitis berlandieri Planchon: Pianta dioica lianosa, con rami giovani angolosi e fioccosi. Cirri presenti in circa due nodi su tre, ramificati e ben sviluppati. Corteccia desquamata negli individui vecchi. Foglie inferiormente da glabre a fioccose, ma senza feltro ragnateloso continuo, prive di peli ferruginei, cordate e con seni basali piuttosto profondi, lobate. Ottima la resistenza a crittogame e fillossera. E' resistente al calcare, ma presenta una notevole difficoltà di radicazione.

In un primo tempo la V. riparia e la V. rupestris vennero usate come portinnesti resistenti alla fillossera. Attualmente i portinnesti proposti per la vite sono ibridi ottenuti dalle tre diverse specie e si suddividono in famiglie di ibridi: Berlandieri x Riparia, Berlandieri x Rupestris e Riparia x Rupestris.

L'area di coltura della vite europea viene assunta come indice della zona fitoclimatica submediterranea, come l'ulivo lo è di quella mediterranea. Richiede temperature medie annue non inferiori a 10°C e medie del mese più freddo non inferiori a 0°C (Pignatti, 1982). Nel Veneto è tra le principali coltivazioni in tutte le province, con l'eccezione del Bellunese (dove è limitata, a causa del clima, al Feltrino, la bassa Valle del Piave e le località meglio esposte dell'Alpago) e di parte del Polesine, dove le caratteristiche dei suoli sono poco favorevoli alle produzioni di qualità.

La Marzemina è una delle varietà di vite più antiche coltivate nel Veneto; la sua presenza è accertata fin dal '200. La tavola è tratta dall'Ampelografia di Girolamo Molon (1906).
Figura 3: La Marzemina è una delle varietà di vite più antiche coltivate nel Veneto; la sua presenza è accertata fin dal '200. La tavola è tratta dall'Ampelografia di Girolamo Molon (1906).

STORIA

La letteratura sulla vite supera probabilmente quella su qualsiasi altra pianta coltivata. Questo è ancora più vero per il Veneto che, con la vite e il vino, ha sempre avuto un rapporto privilegiato sia dal punto di vista culturale che da quello economico. Per una recente ed esaustiva trattazione sulla storia della viticoltura e dell'enologia venete si rimanda, ad esempio, all'opera di Calò, Paronetto e Rorato (1996).
L'uso alimentare dell'uva spontanea è testimoniato fin dal Neolitico o forse addirittura dal Mesolitico, come indicano i frequenti ritrovamenti di vinaccioli negli insediamenti palafitticoli del Garda, del Lago di Fimon (VI) (Broglio, Fasani, 1975) e di numerosissimi altri siti nelle Alpi, nei Balcani, in Francia, Belgio e Svizzera. L'ambiente umido e la biometria dei semi fanno ritenere che la vite utilizzata fosse la subsp. sylvestris. Nella Valle del Giordano, presso Gerico, sono stati rinvenuti accumuli di seme della forma selvatica nettamente al di fuori del suo areale, il che fa pensare a una sua remota messa a coltura (mito dell'ubriachezza di Noè).
La subsp. vinifera, cioè la forma coltivata, non compare nei livelli archeologici precedenti l'Età del Bronzo (Grassi et al., 2005). E' soprattutto in alcuni siti della Macedonia e del Vicino Oriente che si ha la prima evidenza della transizione dalla specie spontanea, in merito alla quale, in molti casi, non può essere escluso che si trattasse della subsp. caucasica. E' accettato da quasi tutti gli studiosi che l'addomesticamento della vite sia avvenuto in più luoghi circa nello stesso periodo. Gli habitat aperti e di margine prediletti dalla vite selvatica ne facilitarono la messa in coltura, mentre la variabilità dei semenzali e la facilità di propagazione agamica, anche solamente per talea, resero molto facile dapprima la creazione, poi la conservazione di varietà selezionate. La coltivazione della vite si diffuse presso i popoli dell'Asia occidentale e dell'Egeo verso il 3000-1500 a. C., mentre i popoli indoeuropei ne appresero la coltura dalle originarie popolazioni mediterranee (Semiti, Egizi, Pelasgi) (Pignatti, 1982). Anche la produzione di vino è confermata, almeno a partire dal 2000 a. C., sia nelle isole dell'Egeo che in Mesopotamia e in Egitto. L'antichità e l'universalità dei miti riguardanti questa bevanda nell'area mediterranea suggerisce anche che una rudimentale tecnica di vinificazione fosse conosciuta in epoche anche più antiche.

Nel Veneto, le prime tracce di coltivazione della vite risalgono all'epoca dei Paleoveneti o degli Etrusco-Retici (7°-5° secolo a. C.), in particolare nel Veronese, nel Vicentino e nel Padovano (Este), ma probabilmente anche ad Adria, mentre molto più scarsi sono i dati per il Trevigiano. Vinaccioli attribuibili alla subsp. vinifera, quindi di sicura origine colturale, sono stati ritrovati in un insediamento risalente al 5° secolo prossimo a S. Pietro in Cariano (VR) (Salzani, 1981).
La viticoltura si diffuse progressivamente in tutto il bacino del Mediterraneo; in Egitto, dove il suolo era poco adatto alla coltivazione, il vino rimase un privilegio dei ricchi e non riuscì mai a sostituire la birra come bevanda del popolo. La vite era invece tra le piante coltivate più importanti sia in Grecia che in Italia, probabilmente con ceppi non molto diversi da quelli in coltura fino al secolo scorso (Pignatti, 1982).
La vite occupa, da sola, quasi la metà della letteratura agronomica romana. Columella cita numerose varietà, sia da vino che da tavola, a partire dalla Aminnea che era considerata nel contempo la più antica e la migliore. Tra le tante altre si possono ricordare l'Apiana, probabile progenitrice del nostro Moscato, e la Retica, di cui si dirà in seguito. Plinio definisce "innumerevoli e infinite" le varietà di uva e di vino. Tra i vini migliori cita "nel Veronese ancora i Retici, che Virgilio pospone al solo Falerno". Il vino Retico delle colline veronesi, secondo Svetonio, era particolarmente apprezzato anche da Augusto e veniva esportato anche nelle colonie germaniche. Nella "classifica della qualità" stilata da Plinio, per primi venivano i vini della collina di Precino o Pucino, poco lontano dalle foci del Timavo (da taluni indicati come progenitori del moderno Prosecco), poi, nell'ordine, quelli di Sezze, quelli famosissimi dell'agro di Falerno (tra Lazio e Campania), dei Colli Albani, di Sorrento e Pozzuoli, i Mamertini (prodotti nel Messinese), i Pretuziani (nelle odierne Marche), quelli di Cesena, quindi il Retico di Verona e gli "Adriani, nell'intimo golfo di questo mare" (ma è dubbio se si trattasse di Adria o piuttosto di Atri nel Piceno). Quanto alle viti "provenienti dall'Agro di Falerno, prendono il nome di Falerne ma, dappertutto, tralignano rapidamente" e non è improbabile che esse venissero coltivate oltre i confini della zona "DOC", forse anche nella Venezia. Al contrario, la varietà Retica "lascia, trapiantata in altri paesi, tutta la sua gloria, perdendo le sue buone qualità". E' noto, del resto, che i Romani portavano i loro principali prodotti nelle regioni assoggettate, spesso sostituendo le varietà autoctone con altre ritenute più produttive o semplicemente più apprezzate.

La vite raffigurata da Rembert Dodoens/ Rembertus Dodonaeus nel Cruijdeboeck (1544).
Figura 4: La vite raffigurata da Rembert Dodoens/ Rembertus Dodonaeus nel Cruijdeboeck (1544).

In età romana, l'estensione dei vigneti nel Veneto era molto inferiore all'attuale. Nel Veronese erano vitate le zone della Valpolicella, della Valpantena, i bassi Lessini e le sponde benacensi. Nel Vicentino la viticoltura era ben diffusa in tutta la fascia collinare; nei pressi di Montebello Vicentino vennero rinvenuti segni inequivocabili di un importante centro enologico nei resti di una villa romana del 1° o 2° secolo d. C., consistenti in una grande tinaia e in numerosissimi vinaccioli. Nel Trevigiano e nel Veneziano di terraferma la viticoltura iniziò proprio con l'insediamento dei Romani, soprattutto nella regione pedemontana ma anche in pianura. Probabilmente, furono la costruzione della Via Postumia e le centuriazioni del 1° secolo a. C. a permetterne la diffusione in zone poco abitate.
Ancora da Plinio si ricavano interessanti informazioni sulle tecniche di allevamento delle viti nell'Italia transpadana, dove era già invalso l'uso di maritarle agli alberi tra i quali, oltre ai classici olmo, pioppo nero, frassino, fico e olivo, che venivano scelti per la chioma leggera o modellabile dal contadino, si faceva affidamento su corniolo, acero campestre, tiglio, acero di monte, carpino, querce. Nella pianura della Venetia si usava molto anche il salice, favorito dall'umidità del suolo; si diceva che l'uva raccolta nelle paludi attorno a Padova sapesse "di salice" proprio a causa di questa consociazione. Questo sistema darà origine alla più originale forma di allevamento viticolo veneto, la piantata, che caratterizzerà il paesaggio agrario regionale fino al '900. La caduta dell'Impero e le invasioni barbariche portarono, nel Veneto come ovunque, a un declino di tutta l'agricoltura, inclusa la viticoltura; ancor prima, lo stesso imperatore Domiziano (81-96 d. C.) era giunto a vietarla in numerosi distretti, per favorire quella strategica del grano, sempre più scarso a Roma. Solo dopo la fine del 5° secolo il ritorno di una relativa stabilità politica permise il rinascere della viticoltura, in particolare sotto la dominazione longobarda, dopo la conversione al Cristianesimo di Teodolinda. Sia l'Editto di Rotari (643) che il Capitulare de Villis (9° secolo) tentarono di regolare il settore, che si trovava evidentemente in fase espansiva ed era seguito con interesse dal potere centrale. Nel Medio Evo, a causa del riscaldamento del clima, la coltura si diffuse in tutta Europa, giungendo in Germania fino al 55° parallelo mentre oggi raramente supera il 52°. Nel Veneto, la vite veniva coltivata anche nel basso Bellunese, tra Arsiè e Feltre, ed era comunque molto diffusa in tutta la regione, e non solo a livello familiare, soprattutto nelle zone collinari e in quelle planiziali sufficientemente asciutte Un ruolo importantissimo fu svolto dal monachesimo benedettino, che ridiffuse la viticoltura nelle zone che già in epoca romana si erano mostrate più vocate. Importante fu anche l'opera di alcune famiglie nobili locali, che verranno in buona parte sostituite da famiglie veneziane nei secoli successivi. Tra i numerosi vitigni citati nelle cronache del '200-'300 abbiamo: Garganega, Schiava o Slava, Durasena (o Duriciana), Groppello, Vernazza, Marzemina, Pinella, Varadua, Brumesca, Ribolla, Tremarina.

Il '400 è un secolo di forte diffusione della viticoltura. Con la conquista veneziana di gran parte della terraferma veneta si cominciò a porre ordine anche nella produzione vitivinicola, che costituiva un'importante settore merceologico per la città lagunare. Quando gli interessi della nobiltà veneziana si estesero progressivamente alla terraferma, la viticoltura venne ad assumere sempre più un ruolo di primo piano, pur mantenendosi in gran parte in coltura promiscua e non specializzata. Il consolidamento della civiltà della villa nel '500 portò, secondo gli storici, a risultati contrastanti: le popolazioni delle campagne vennero di fatto espropriate delle terre migliori e costrette ad accontentarsi delle aree meno fertili, il che generò una crisi agraria e la diminuzione del tasso di natalità. D'altro canto, la ricerca del bello e del piacere da parte della nobiltà portò a un rinnovamento delle produzioni vitivinicole, culminata con l'importazione di nuovi vitigni esotici come la Malvasia dei Balcani. La contemporanea ricerca dell'utile favorì anche la diffusione di nuove tecniche miranti a migliorare la qualità e ad aumentare la produttività, visto che buona parte del vino prodotto veniva commercializzato. Nello stesso secolo comparvero nel Vicentino i vini piccanti, cioè frizzanti, che si producevano in collina.
L'inizio del Seicento fu un periodo molto positivo per la viticoltura veneta. Nel Veronese il settore rimase sostanzialmente in mano agli aristocratici locali, attenti agli aspetti qualitativi. Anche i vini del Vicentino erano all'apice del successo e venivano in buona parte esportati; questa fortuna commerciale ebbe come conseguenza l'estensione del territorio vitato, dai Colli Berici fino alla Pedemontana. Particolarmente rinomati erano i vini di Orgiano, Breganze e Schio. Anche nel Padovano i vigneti si estesero in gran parte della pianura. Tra le numerose varietà diffuse nel 17° secolo si ricordano Aleatica, Cagnetta, Corvina, Lacrima, Lambrusca, Rabiosa, Rossetta, Saccola, Terodola (o Teroldega), Trebbiano, Vernaccia.
Tuttavia, in tutto il Veneto i filari erano ancora quasi sempre condotti con la classica consociazione con mais e frumento, in modo da soddisfare la quota dominicale, da pagarsi in grano e vino. La vite era appoggiata a filari arborei, la cui composizione dipendeva soprattutto dalle caratteristiche produttive dei singoli alberi (noce, pioppo, olmo ecc.) spesso senza tenere conto dello scadimento della qualità dell'uva. Nella seconda metà del secolo, la depressione conseguente alla peste e le crescenti imposizioni fiscali sprofondarono la viticoltura in un periodo di profonda crisi.

La vite vinifera secondo Pier Andrea Mattioli (1544).
Figura 5: La vite vinifera secondo Pier Andrea Mattioli (1544).

Anche nel '700 la qualità della produzione peggiorò quasi ovunque, nel tentativo di ottenere produzioni quantitativamente più elevate per soddisfare il mercato veneziano. La stessa città lagunare, sempre più in crisi, perse interesse per gli investimenti fondiari. Anche gli eventi meteorologici eccezionali, come la gelata del 1709 che provocò migliaia di morti per freddo e la decimazione di ulivi e viti, non furono seguiti da adeguate opere di ricostituzione. La viticoltura passò progressivamente dalla grande proprietà terriera alle piccole aziende contadine, che avevano maggior interesse nella quantità che nella qualità del vino prodotto. Incidentalmente va notato che, tra le poche varietà che resistettero quasi senza danni alla grande gelata, vi fu la Cavrara, che da allora si diffuse, quasi a titolo precauzionale, in tutti i vigneti familiari della Lessinia (Zampiva, 2002). Il peggioramento qualitativo contraddistinse buona parte del 19° secolo, con poche lodevoli eccezioni come la Valpolicella e le valli d'Illasi e Tramigna nel Veronese, in particolare per quanto riguarda il vin Santo, oggi Reciòto, e il Coneglianese, ad esempio con il Picolit, Marzemino, Prosecco, Malvasia ecc. La produzione vinicola, sicuramente abbondante, era suddivisa in una parte di qualità e in un'altra, maggioritaria, di scarso pregio. Tra le cause del declino vennero indicati l'ostinazione dei contadini nel seguire gli antichi usi anche se dimostratisi poco validi, l'abuso del letame per forzare le produzioni, la consociazione sempre più frequente col gelso, la scarsa cura posta nella fermentazione e nella successiva conservazione del vino e, soprattutto, l'eccessivo numero di varietà di vite coltivate nello stesso fondo.
Il quadro varietale presente all'inizio del XIX secolo era, in effetti, molto ampio, tanto da rendere improponibile un'elencazione sia pure indicativa delle tipologie esistenti. Il Pollini, famoso botanico veronese, elenca per la provincia scaligera 55 varietà rosse e 25 bianche, avvertendo però che l'elenco è fortemente carente. Nello stesso periodo, nel Vicentino vengono censite non meno di 120 varietà di uve rosse e 76 di bianche. Un catalogo dichiaratamente incompleto, costituito dal Conte di Maniago nel 1823, raccoglieva non meno di 240 varietà "valide" tra Veneto e Friuli, mentre l'"Elenco descrittivo dei vecchi vitigni coltivati nel Veneto…" compilato nel 1901 da G. B. Zava forniva 27 nomi per Padova, 17 per Rovigo, 24 per Venezia, 105 per Verona, 44 per Vicenza, 88 per Treviso e 7 per Belluno, con numerosissimi sinonimi (Calò et al., 1996). Il problema varietale era considerato come il più urgente. Gli studiosi erano concordi nell'attribuire la scarsa qualità dei vini locali all'uso di cultivar di scarso valore, spesso mescolate tra loro anche se con tempi di maturazione diversi. L'enorme numero di forme, spesso poco note, rese necessario uno studio, finalizzato come prima cosa a chiarire le sinonimie, poi a fornire una base conoscitiva per la scelta delle uve migliori.
Ma il problema principale da risolvere era la grande arretratezza tecnica di tutta la campagna veneta, lasciata quasi priva di investimenti fondiari e di migliorie da quella nobiltà che ormai vedeva la terra più come un bene rifugio che come un investimento da far fruttare. Le proprietà ecclesiastiche, espropriate da Napoleone, venivano gestite se possibile ancor peggio dallo Stato, che le affittava con contratti a breve scadenza che dissuadevano da qualsiasi investimento. Dal canto loro, i piccoli proprietari non possedevano né il denaro necessario né le competenze tecniche.
Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 si iniziò a fare il punto delle sperimentazioni in corso sui vitigni stranieri. Nel Veneto venivano allora coltivati Aramon, Cabernet franc, Cabernet sauvignon, Carmenère, Chardonnay, Furmint, Gamay, Malbech, Pinot, Riesling, Rotgipfler, Sauvignon, Semillon, Sirah, Teinturier, Tocai (in realtà una varietà di Sauvignon proveniente dalla Francia), Traminer, Wildbacher ecc. Queste coltivazioni, che sembravano più resistenti alle malattie di quelle locali, si diffusero soprattutto nelle province di Treviso, Venezia e Vicenza, mentre ebbero poco seguito nel Veronese, che già disponeva di vitigni di gran pregio, e nel Padovano.
Purtroppo, i tentativi di miglioramento si scontrarono fin dal 1850 con una prima malattia, l'oidio, causata dalla crittogama Uncinula necator. La malattia venne presto debellata con la semplice pratica della solforazione, ma la successiva comparsa della peronospora, provocata dal fungo Plasmopara viticola, tra il 1870 e il 1880 impose l'importazione di specie resistenti dall'America, come Vitis labrusca e Vitis vulpina X rupestris (Clinton).
Ironia della sorte, fu proprio a seguito dell'importazione di materiale americano che, attorno alla metà dell'800, giunse in territorio europeo la malattia fillosserica, provocata dall'afide Pemphigus vitifolia. Nel 1879 furono scoperte le prime infestazioni in Italia (Lombardia) e nel 1900 nel Veneto, a Treviso. Questo autentico flagello, che colpì in modo particolarmente virulento dapprima il Trevigiano e il Veronese, poi le altre province, impose una ricostituzione di gran parte dei vigneti su piede americano. Vennero distribuite gratuitamente talee e barbatelle di Isabella e Clinton, assieme a marze e piante innestate di varietà di pregio locali e straniere. La ricostituzione dei vigneti su piede americano si concluse nel Veneto attorno al 1942.

Nell'ultimo dopoguerra i problemi da risolvere riguardarono soprattutto la diffusa presenza della coltura promiscua e la frequentissima sostituzione dei vitigni europei con gli ibridi produttori diretti. La produzione vicentina, per esempio, continuò per lungo tempo a basarsi sulle viti americane: a fronte di 1500 ettari di coltura specializzata di qualità, se ne contavano 98.000 a coltura promiscua, di cui circa 40.000 a vitigni americani come il Clinton. Per soddisfare la richiesta interna di vini comuni furono proposti vitigni ad alta produzione e ibridi produttori diretti, mentre per produrre vini pregiati per il commercio e l'esportazione si diffusero parallelamente vitigni di elevata qualità. Dopo gli anni '60 i vigneti promiscui vennero progressivamente sostituiti con impianti specializzati, mentre la quantità e la qualità della produzione andarono progressivamente migliorando. La presenza di ibridi produttori diretti diminuì fin quasi a scomparire, grazie anche al divieto di commercializzazione. L'attuale produzione vinicola veneta si basa su varietà di vite in gran parte non autoctone, molte delle quali straniere, altre provenienti da altre regioni italiane. Tra le poche di origine locale, i regolamenti CEE consentono per il Veneto Bianchetta trevigiana, Boschera, Corvina veronese, Corvinone, Croatina, Durella, Garganega, Groppello gentile, Incrocio Manzoni 2-15, Malvasia istriana, Manzoni bianco, Manzoni rosa, Manzoni moscato, Marzemina bianca, Marzemino, Molinara, Moscato, Pavana, Pedevenda, Perera, Pinella, Prosecco, Prosecco lungo, Raboso Piave, Raboso veronese, Refosco, Rondinella, Rossignola, Trebbiano di Soave, Trevisana nera, Verdiso, Verduzzo trevigiano, Vespaiola.

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