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Olea europaea L.
Fam. Oleaceae
Il genere Oleai L. comprende circa 20-30 specie (Erhardt et al., 2002), diffuse dall'Oceania, all'Africa all'Europa meridionale, geograficamente o ecologicamente isolate ma spesso tra loro interfertili. Tra queste, solo l'olivo comune del Mediterraneo (O. europaeai L. subsp. europaea = subsp. sativa Loudon; subsp. communis) è coltivato. La sua origine è ancora controversa, ma sembra verosimile che l'olivo moderno possa essersi generato a causa di un'antica ibridazione spontanea tra Olea ferruginea Royle, oggi vivente nell'Asia centrale (Iran, Afghanistan), e Olea laperrinei Batt. et Trab. [=O. europaea L. subsp. laperrinei (Batt. et Trab.) Cif.], endemica delle montagne sahariane, in un'epoca preglaciale in cui gli areali di queste specie si sovrapponevano almeno parzialmente.
Autori antichi, ad es. il De Candolle, ritengono l'olivo coltivato di provenienza orientale, ma questo contrasta con la presenza delle forme selvatiche (olivastro) nella macchia mediterranea più termofila (Pignatti, 1982). Le forme selvatiche sono inoltre completamente interfertili con quelle coltivate e possono essere usate come portainnesto (Heywood, Zohary, 1995).
Olea europea L.: Olivo. Albero alto fino a 15 metri o arbusto sempreverde, con chioma ampia, corteccia grigia, liscia e rami longitudinalmente striati. Foglie opposte, subsessili, di forma e dimensione variabile (normalmente 20-80 mm x 5-15 mm), con lamina grigio-verde sulla pagina superiore, grigio chiaro e tomentosa sull'inferiore. Fiori tetrameri in brevi pannocchie ascellari; corolla bianca, di circa 0,5 cm di diametro; due stami. Frutto a drupa lunga 1-2 cm (fino a 3-4 nelle varietà coltivate), da ellissoidale a subglobosa. Diploide, con 2n = 46.
Si distinguono quattro sottospecie, due delle quali presenti in Italia:
subsp. europaea: Olivo comune. Albero. Rami giovani non spinescenti. Foglie strettamente lanceolate o lineari-spatolate, acute (40-80 mm x 10-15 mm); frutti grandi e ricchi d'olio, di colore e forma variabili. Coltivato e inselvatichito.
subsp. sylvestris (Miller) Lehr. (= var. sylvestris Brot.; subsp. oleaster (Hoffmg. et Link) Hegi; Olea oleaster Hoffmg. et Link): Olivastro. Si distingue dall'olivo per il portamento arbustivo, i rami giovani induriti e spinescenti, le foglie da lanceolate a ovali, brevi (1-2 cm) e ottuse, i frutti piccoli e poveri d'olio.
Spontaneo nella macchia mediterranea, l'olivastro è diffuso in un areale comprendente tutte le coste dell'Europa meridionale, l'Africa nordoccidentale, la Libia, la Crimea, la Turchia e la Palestina. In Italia è diffuso e localmente comune solo nei settori più caldi dei territori lungo le coste tirreniche, in Puglia e nelle isole, dove differenzia le forme più termofile della macchia (Oleo-Ceratonion) e della gariga; più raro nelle aree più a Nord (lungo l'Adriatico fino alle Marche). L'olivastro era presente in Italia già nel Pliocene (ad es. negli strati di Mongardino - BO) (Pignatti, 1982).
Sono descritte altre due sottospecie, la subsp. cerasiformis (Webb et Berth.) Sunding , endemica delle Isole Canarie, e la subsp. africana (Mill.) P. S. Green, diffusa nell'Africa tropicale e meridionale e nella Cina sudoccidentale. Nessuna di queste due sembra essere implicata nella genesi dell'olivo coltivato (Heywood, Zohary, 1995), che si svolse probabilmente tutta nell'ambito del bacino del Mediterraneo. L'olivo coltivato è stato ottenuto per coltura dall'olivastro e, inselvatichito, tende ad assumerne il portamento e le caratteristiche (Pignatti, 1982).
L'ecologia e la distribuzione dell'olivo coltivato sono state molto studiate dai botanici e dagli agronomi, perché considerate indicatori molto affidabili di mediterraneità climatica. L'olivo è coltivato con continuità nelle regioni affacciate ai litorali liguri, tirrenici e ionici, mentre in quelle adriatiche arriva con continuità solo fino alle Marche e penetra, in limitati distretti, nella Romagna. Nell'Italia settentrionale l'olivo occupa solo le posizioni con microclima più favorevole, come le sponde dei laghi prealpini e le colline venete e goriziane, godendo soprattutto della mitigazione delle temperature invernali. Poiché l'olivicoltura è possibile, in linea di massima, tra le latitudini di 30° e di 45° N, il Veneto si trova proprio in corrispondenza del limite settentrionale.
I limiti di penetrazione dell'olivo lungo le valli alpine sono stati descritti da Marchesoni (1947). Nel bacino del Garda, la coltura dell'olivo si spinge fino a S. Massenza (TN), nella valle del Sarca, che è probabilmente la stazione europea più settentrionale. In questa località la coltivazione è possibile solo grazie alla peculiare mitezza del clima dovuta alla presenza del lago. Lungo i pendii della Valle dell'Adige, l'olivo giunge fino ad Avio (TN), comprendendo quindi l'intero tratto veneto della valle. Stazioni più settentrionali di quelle indicate, pur essendo possibili in microclimi particolarmente favorevoli, non permettono di ottenere una regolare maturazione dei frutti.
La massima diffusione dell'olivicoltura nel Veneto si ha proprio nel settore occidentale della Regione, in provincia di Verona (Lago di Garda e colline lessiniche), mentre diventa progressivamente meno importante e più discontinua man mano che ci si sposta verso oriente. Nel vicentino, un tempo era coltivato fino a Cornedo Vicentino, nella Valle dell'Agno, sulle colline di Marostica, Bassano e Asolo, spingendosi solo fino a Solagna (VI) all'interno del Canale del Brenta. L'olivicoltura da reddito è modesta in quasi tutto il Veneto orientale e nel Friuli occidentale e riacquisisce importanza solo nei Colli orientali del Friuli, nel Collio e nel Carso, dove si collega all'ambiente più nettamente mediterraneo dell'Istria. Distretti olivicoli di estensione e importanza economica più limitate si trovano nei Monti Berici (VI) e nei Colli Euganei (PD); piccole coltivazioni per il consumo familiare, composte da pochi esemplari produttivi, erano presenti anche nell'alta pianura asciutta, ad esempio nelle permeabili conoidi alluvionali allo sbocco delle valli alto vicentine (Gruppo di Ricerca sulla Civiltà Rurale, 1998).
La distribuzione di dettaglio dell'olivo è dettata dalle sue esigenze ecologiche, che riguardano soprattutto il forte bisogno di luce e calore estivi, l'intensità e soprattutto la durata delle temperature minime invernali, l'entità delle escursioni termiche e il drenaggio ottimale dei suoli, che soprattutto in inverno non devono essere troppo bagnati. Soprattutto al limite distributivo settentrionale, è quindi del tutto comprensibile che gli oliveti si concentrino nei versanti esposti a Sud, su suolo calcareo e alle basse altitudini del piano collinare. Ciononostante, la frequenza dei danni da gelo può raggiungere i 3-4 eventi per secolo, e in tale contesto assume particolare importanza la selezione di ecotipi locali dotati di spiccate capacità di resistenza al freddo.
A livello mondiale, l'olivo è coltivato soprattutto in Europa (Spagna, Italia, Grecia, Francia meridionale, Portogallo, Albania, Croazia, Russia meridionale), Asia occidentale (Turchia, Medio Oriente, Iraq, Iran) e Africa settentrionale (dal Marocco all'Egitto). Introduzioni più o meno fortunate si trovano anche in India, Cina, Giappone, Stati Uniti, America latina, Sudafrica, Australia del Sud.
L'uso dell'olivo è antichissimo e attestato in tutto il bacino mediterraneo. Se ne trovano numerose tracce nelle stazioni neolitiche; la coltura era nota a tutte le civiltà mediterranee ed è quasi certo che si sia sviluppata indipendentemente in più luoghi e più o meno nello stesso periodo. Anche nel Veneto è stata accertata la presenza di semi d'olivo nelle palafitte di Pacengo e di Peschiera del Garda, ma l'interpretazione di questo dato è molto problematica, visto che l'olivo non si diffonderà in Italia che verso la metà del 1° millennio a. C. E' comunque un compito arduo, se non impossibile, riconoscere l'olivo coltivato da quello selvatico sulla base dei resti archeologici, visto che forma e dimensione dei semi sono del tutto simili. Le osservazioni più antiche in stazioni esterne all'arale dell'olivo spontaneo, come quelle gardesane, potrebbero perciò derivare dal commercio dei frutti, una volta scoperta la possibilità di conservare le olive trattandole con alcali o con sale, e non necessariamente da una reale presenza in loco di piante spontanee o coltivate.
L'importanza dell'olivo per le antiche civiltà mediterranee è sottolineata dall'ampiezza del suo ruolo nella mitologia: dal ramoscello riportato dalla colomba a Noè alla fine del Diluvio, fino al mito della fondazione di Atene, con la dea Atena che vince la gara con Poseidone donando all'uomo l'olivo coltivato. Amplissimo è anche il suo significato simbolico, come bene prezioso e segno di resurrezione e forza, e questo sia nelle religioni precristiane che in quella cristiana. E' stato fatto notare che fu il culto dell'olivo, e non solo quello dell'olio, ad essere assorbito nei rituali della nuova religione, sopravvivenza più unica che rara dei culti arborei pagani perseguitati dal Cristianesimo fin dalle sue origini.
Le prime tracce di produzione di olio sono rappresentate dalle presse e dai mortai del 5° millennio a. C. rinvenuti presso Haifa, associati a ingenti accumuli di semi. La civiltà minoica (2° millennio a. C.) ha lasciato i resti di imponenti impianti oleari a Cnosso, Santorini e Mallia. Le loro dimensioni sono tali da far pensare a un commercio su larga scala, ad esempio con l'Egitto, dove l'olivicoltura non si sviluppò nonostante siano numerose le rappresentazioni pittoriche della pianta e le attestazioni di offerte votive sotto forma di olio.
Circa nello stesso periodo, in Mesopotamia, il Codice di Hammurabi regolava tra le altre cose il commercio dell'olio d'oliva. In Grecia gli olivi sono ampiamente ricordati nei poemi omerici; la tradizione vuole che siano stati i Fenici i primi diffusori dell'olivo e della sua coltura in Italia, Spagna e Africa settentrionale.
L'olivo rimase la principale pianta da frutto dell'area mediterranea orientale fino all'Età del Bronzo (Heywood, Zohary, 1995). Secondo Plinio, l'olivo era sconosciuto in Italia, in Spagna e in Africa ancora durante il regno di Tarquinio Prisco (581 a. C.). Tuttavia, in Etruria, sia a Cerveteri che a Spina, si trovano indizi certi di una produzione locale di olio a integrazione delle massicce importazioni dall'Attica, macine risalenti ad almeno un secolo prima di quanto asserito dalle fonti latine. In ogni caso, tra il 6° e il 4° secolo a. C. l'olivo si diffuse massicciamente nel nostro paese, probabilmente partendo dalle regioni più meridionali o dalle isole per giungere lentamente fino al Veneto. Divenne presto una delle piante coltivate più importanti e diffuse e l'olio d'oliva la principale fonte alimentare lipidica e una delle merci più scambiate già a partire dal 2° secolo a. C. Nel 1° secolo d. C., Columella descrisse l'olivo come "prima omnium arborum".
Le olive venivano frequentemente utilizzate direttamente come cibo, previo trattamento con lisciva (ranno) e conservate in aceto, vino cotto, salamoia, olio di lentisco o sotto forma di sansa salata, oppure essiccate al sole dopo una salatura a secco. Con ogni probabilità, anche queste tecniche conservative erano state importate a Roma dal Mediterraneo orientale. L'olio ne rimaneva comunque il principale prodotto e i suoi prezzi venivano trattati nell'Arca Olearia, antesignana delle moderne borse.
In epoca romana, la tecnica colturale migliorò decisamente. La coltivazione venne esportata anche nelle province e nelle colonie con clima adatto, incluse le aree più favorevoli della Venetia; molte fonti ne parlano diffusamente e nei frammenti degli affreschi che decoravano la villa romana di Sirmione (le cosiddette "Grotte di Catullo") si riconosce un paesaggio olivetato. Risalgono all'epoca romana anche i numerosi resti di frantoi trovati in più località nel Benaco meridionale.
Presso i Romani, anche la selezione varietale ebbe un incremento rapidissimo. In merito all'entrata in produzione delle piante, Plinio nota come ancora Esiodo dicesse che nessuno può piantare l'olivo e goderne il frutto, mentre ai suoi tempi gli olivi fruttificavano già nei vivai e le olive potevano essere raccolte appena un anno dopo il trapianto. Le numerose cultivar citate derivavano probabilmente da semenzali che portavano frutti di buona qualità e che poi venivano diffusi agamicamente per talea o per innesto su altri olivi o, più frequentemente, su olivastri. I lunghi tempi evolutivi associati all'olivicoltura e la longevità economica dell'olivo hanno contribuito a mantenere sostanzialmente stabili numerose cultivar utilizzate fin dai tempi delle civiltà classiche.
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