Biodiversità del Veneto

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Il radicchio

Cichorium intybus L.

Fam. Asteraceae (= Compositae)

Le varietà di radicchio coltivate nel Veneto
Figura 1: Le varietà di radicchio coltivate nel Veneto sono molto numerose; in questa immagine i radicchi di Chioggia, di Castelfranco e di Treviso.

CARATTERI BOTANICI

Il radicchio è la principale forma orticola della comune cicoria, un'erba selvatica comunemente diffusa in tutta Europa di cui si possono utilizzare le radici, un tempo impiegate come succedaneo del caffè, o le foglie da consumarsi crude o cotte.
Le forme coltivate di radicchio e cicoria derivano tutte da un'unica specie, Cichorium intybus L., in alcuni casi anche tramite incroci con la simile C. endiviai L. Le foglie giovani, spesso fortemente arrossate perché geneticamente ricche di antociani, sono coltivate per essere consumate come ortaggio crudo o cotto.

Il genere Cichorium L. appartiene alla sottofamiglia Liguliflorae, tribù Cichorieae, della famiglia delle Asteracee o Compositae. Comprende almeno 8 specie di piante erbacee, a ciclo annuale, biennale o perenne, dotate di fusti ramosi e fogliosi. Le foglie sono sempre alterne, dentate o partite; i fiori formano capolini in numero elevato, con le squame involucrali ordinate in due serie e ricettacolo nudo. I fiori sono azzurri, tutti ligulati ed ermafroditi, con antere acute alla base, stimmi filiformi e pelosi sul lato inferiore. I frutti sono rappresentati da acheni conici, muniti di un pappo, cioè di una appendice che si trova all'apice del frutto, per la disseminazione anemofila, formato da una coroncina di dentelli brevissimi.
In Italia sono spontanei tre taxa: Cichorium intybus L. var. intybus, Cichorium spinosum L. (Sicilia sudorientale, rarissimo), Cichorium endivia L. subsp. divaricatum (Schousboe) P. D. Sell (= Cichorium pumilum Jacq.). Un altro è solo coltivato: Cichorium endivia L. subsp. endivia (indivia, scarola), probabilmente derivata per selezione colturale dal taxon selvatico noto come subsp. divaricatum (Heywood, Zohary, 1995).

La cicoria coltivata nell'iconografia del Cruijdeboeck di Rembert Dodoens/ Rembertus Dodonaeus (1544).
Figura 2: La cicoria coltivata nell'iconografia del Cruijdeboeck di Rembert Dodoens/ Rembertus Dodonaeus (1544).

Cichorium intybus L.: Erba perenne con fusto prostrato o eretto, ispido, con peli rivolti in basso. Foglie basali pennatopartite o pennatosette, 3-5 x 10-25 cm, con segmenti triangolari acuti, generalmente alterni; foglie cauline lanceolate, sessili e ridotte. Capolini numerosi, di 2-3 cm di diametro, sessili o peduncolati; involucro cilindrico (3 x 11 mm), con squame triangolari, le esterne patenti, le interne lunghe il doppio ed eretto-conniventi; ligule12 mm, azzurre o raramente rosee, con colore facilmente dilavabile dall'acqua. Il seme è un achenio di dimensioni pari a 2-3 mm, con pappo formante una breve coroncina apicale. Diploide (2n = 18).
Cichorium endiviab L. Indivia, scarola. Pianta annua o biennale, pelosa o glabra. Foglie dentate o lobate le basali pennatopartite o pennatosette, le cauline ovali, sessili e astate. Peduncoli dei capolini più o meno ingrossati a clava, con tinta più stabile all'acqua. Achenio con pappo lungo fino a 1/6 dell'achenio stesso.

I tipi commerciali di radicchio, oltre che dalla selezione varietale, sono fortemente influenzati dalle tecniche colturali cui sono sottoposte, in particolare la forzatura e in alcuni casi l'eziolamento. Due esempi ne sono la pregiata cicoria belga (Chicorée barbe de capucin), clorotica e di sapore dolce (Pignatti, 1982), e il Radicchio rosso di Treviso tardivo.

STORIA

Il radicchio deriva quindi dalla cicoria selvatica, selezionata per la produzione di foglie e germogli commestibili allo stato crudo e, meno frequentemente, cotto. Come erba selvatica, dovette avere un impiego sicuramente molto antico, mentre la selezione delle forme modernamente coltivate nel Veneto avvenne in tempi abbastanza recenti. La mancanza di dati antichi sul consumo della pianta deriva sicuramente dalla facile reperibilità dell'ortaggio e dal suo uso prevalente presso le classi meno abbienti.
Anche Plinio il Vecchio descrisse la cicoria come un cibo per poveri, soffermandosi soprattutto sulle virtù medicinali del succo, usato contro il mal di testa, i dolori al fegato e alla vescica e delle radici, una sorta di panacea efficace contro il mal di stomaco, la gotta, la prostata, l'insonnia ecc. Tuttavia, Plinio accenna anche a tecniche quasi moderne di imbianchimento di lattughe e cicorie, consistenti soprattutto nel taglio dei germogli a una certa altezza. Almeno in Egitto, queste tecniche potevano comprendere anche un'eziolamento provocato per seppellimento in sabbia o limo. Questa testimonianza, pur molto breve e incidentale, mostra come anche le moderne insalate "affondino le radici" quantomeno in epoca romana.

La cicoria selvatica nell'iconografia del Cruijdeboeck di Rembert Dodoens/ Rembertus Dodonaeus (1544).
Figura 3: La cicoria selvatica nell'iconografia del Cruijdeboeck di Rembert Dodoens/ Rembertus Dodonaeus (1544).
Columella, che per la lattuga cita numerose varietà (Ceciliana, di Cappadocia, Betica, di Cipro), per la cicoria si limita ad indicare alcune note colturali, che comunque indicano come essa fosse un comune ospite degli orti familiari. Oltre che fresca, era diffusa una tecnica di conservazione in aceto e salamoia, comune a numerosi ortaggi ed erbe selvatiche come la lattuga e le cime di rovo.
Nel Medioevo, lo sviluppo del monachesimo più severo impose un grande impulso al consumo di cicoria, nonostante l'uso culinario rimanesse sostanzialmente limitato alle classi povere o addirittura agli animali allevati. Le citazioni letterarie, da Orazio fino all'Aretino, tendevano invariabilmente a presentare le virtù dell'ortaggio come un cibo rustico e sano, da contrapporre alle corrotte mollezze dei cibi raffinati che erano consumati nelle corti reali o nobiliari.
Pier Andrea Mattioli, nei Discorsi... sopra Dioscoride (1568), individua una cicoria selvatica (picra) e una coltivata, che suddivide ulteriormente in due varietà, l'una simile alla lattuga, l'altra a foglie più strette e amare. Accenna inoltre a tecniche di imbianchimento che facevano uso di coperture di sabbia e terra e che testimoniano come questa tecnica si fosse mantenuta quasi immutata fin dai tempi di Roma antica.
Pochi anni prima, nel 1561, il Prefetto dell'Orto Botanico di Padova Luigi Squalermo detto l'Anguillara (Semplici dell'eccellente...) parla di una cicoria invernale coltivata nel Veneto, anch'essa da imbianchire. L'origine del radicchio rosso veneto può forse essere fatta risalire a varietà simili a questa, descritta come "a foglie più larghe della selvatica per la coltura. Questa sorte non è altro che li radicchi che si seminano negli horti, la selvatica invece è quella che nasce in campagna... La seconda è la nostra cicoria in bianca, che si mangia al tempo dell'invernata". Giovan Battista Barpo, canonico bellunese (Le delizie dell'Agricoltura e della Villa. Venezia, 1634), così si espresse in merito alla forzatura e all'imbianchimento: "alcuni la trapiantano per averla più tenera, altri la legano come la lattuga o endivia, per farla bianchissima e tenera ... col lasciarla sotto la sabbia, o coperta con terra, canne, foglie, paglia di sarafino, o legata stretta; ma ancora meglio diventerà se verranno coperti i suoi piedi con piattelli o scodelle fatte apposta poiché, non respirando e non essendo toccata dall'aria, verrà come neve bianca, e questo viene stimato per bellissimo segreto" (cit. in AA. VV., 1998).
La cicoria venne coltivata per secoli anche per utilizzarne la radice che, torrefatta, poteva fornire un decente surrogato del caffè. Questa proprietà fu descritta per la prima volta da Prospero Alpini (16° sec.), noto proprio per aver importato il caffè dall'Africa, e venne dallo stesso proposta anche per scopi medicinali. La coltura di cicoria da radice si diffuse soprattutto durante i periodi di crisi del commercio del caffè, come ad esempio i blocchi commerciali napoleonici o il periodo tra le due guerre mondiali (Pignatti, 1982). Il caffè di cicoria ebbe particolare diffusione in Francia, soprattutto dai tempi dell'Impero di Napoleone.
La cicoria coltivata raffigurata da Pier Andrea Mattioli (1544) nei Discorsi sopra Dioscoride.
Figura 4: La cicoria coltivata raffigurata da Pier Andrea Mattioli (1544) nei Discorsi sopra Dioscoride.
Nel Veneto, la coltura del radicchio ha superato l'ambito familiare per assumere connotati prettamente commerciali. Il notevole introito economico derivante dal mercati dei centri urbani in sviluppo ha anche consentito una notevole sperimentazione sia per le varietà, sia per le tecniche colturali, che hanno probabilmente raggiunto l'apice nel caso del Radicchio rosso tardivo di Treviso o Spadone, che viene imbianchito con l'uso delle acque di risorgiva del Sile.
Questa varietà è probabilmente la più antica tra quelle oggi coltivate. La prima notizia certa risale al 1862, in un articolo (L'Agricolo, Almanacco pel 1862 con indicazioni sull'andamento dei bachi e solforazione delle viti. Anno I, Treviso) in cui si parlò dell'imbianchimento del radicchio. Già nel 1870 la varietà era nota in tutta Italia e veniva diffusamente commercializzata; le prime esportazioni verso i mercati esteri si ebbero nel 1884 e la prima mostra-mercato a Treviso, già localizzata nell'attuale collocazione della Piazza dei Signori sotto la Loggia, fu inaugurata nel 1900 (Pavan in AA. VV., 1998).
La patria di origine del radicchio rosso e delle relative tecniche di imbianchimento con l'uso di acqua sorgiva fu, secondo una tradizione confermata dalle fonti storiche, Dosson di Casier (TV). Sulla selezione decisiva che ha dato origine alla varietà esistono invece solo leggende o dicerie, che vanno dalla diffusione dai semi da parte di uccelli di passaggio, alla tutela e conservazione di antiche sementi ad opera di frati fino alle attività condotte nella Marca del vivaista Francesco Van den Borre, all'epoca noto progettista di giardini, che avrebbe applicato al locale radicchio le tecniche di imbianchimento usate per la lattuga belga; quest'ultima ipotesi, che ha più delle altre il fascino della verosimiglianza, venne però smentita dallo stesso figlio del Van den Borre, Francesco (AA. VV., 1998).
Quale ne sia l'origine, nel 1900 il radicchio rosso era l'ortaggio più importante del Trevigiano. Solo a Dosson ne venivano prodotti oltre 400 quintali l'anno, per lo stratosferico valore di circa 10.000 lire dell'epoca; molte famiglie ne traevano redditi di 3-400 lire l'anno, giungendo a 1500-2000 lire nelle annate eccezionali. I prezzi variavano da 15 a 30 lire al quintale per la merce comune, fino a 80 lire e più per la migliore (Benzi, 1900 in AA. VV., 1998).
Dopo questo periodo d'oro, nel primo dopoguerra la coltura subì un rallentamento, probabilmente dovuto a difficoltà tecniche di approvvigionamento del seme o dell'acqua. Allo scoppio della seconda guerra mondiale i produttori si erano ridotti a soli 55, per una produzione complessiva inferiore a 2700 quintali. Dopo la guerra, tuttavia, la produzione riprese, in coincidenza con l'aumento del reddito pro capite medio, fino all'attuale produzione di più di 40.000 q l'anno su una superficie di 550 ha in continua crescita (Morganti, Nardo, 2004). L'area di produzione tipica comprende i comuni di Carbonera, Casale sul Sile, Casier, Istrana, Mogliano Veneto, Morgano, Paese, Ponzano Veneto, Preganziol, Quinto di Treviso, Silea, Spresiano, Trevignano, Treviso, Vedelago, Villorba, Zero Branco (TV); Piombino Dese, Trebaseleghe (PD; Martellago, Mirano, Noale, Salzano, Scorzè (VE).
La cicoria selvatica raffigurata da Pier Andrea Mattioli (1544).
Figura 5: La cicoria selvatica raffigurata da Pier Andrea Mattioli (1544).
In un modo o nell'altro, il Radicchio rosso di Treviso sta alla base di tutte le altre varietà di radicchio coltivate nel Veneto (Morganti, Nardo, 2004). Attualmente, le produzioni venete tutelate dall'Indicazione geografica protetta comprendono il Radicchio rosso di Treviso, il Radicchio variegato di Castelfranco, il Radicchio rosso di Chioggia, il Radicchio rosso di Verona mentre sono classificate come Prodotti agroalimentari tradizionali ai sensi dei D. Lgs. n. 173 del 30 aprile 1998 e n. 350 dell'8 settembre 1999 il Radicchio bianco Fior di Maserà, il Radicchio bianco o variegato di Lusia, e il Radicchio variegato bianco di Bassano, oltre alla Catalogna gigante di Chioggia.
Il Radicchio variegato di Castelfranco deriva probabilmente dall'ibridazione tra il Rosso di Treviso e l'indivia scarola a foglie di lattuga (Cichorium endivia); è quindi un ibrido interspecifico. L'area di coltivazione ricalca in buona parte quella del Radicchio rosso di Treviso, comprendendo anche zone al di fuori della fascia delle risorgive come il comune di Mira (VE). L'imbianchimento è obbligatorio, ma si attua con tecniche leggermente diverse rispetto al più nobile cugino.
Il Radicchio rosso di Chioggia deriva dal Variegato di Castelfranco. Venne selezionato tra gli anni '30 e i '50 del Novecento per ottenere un arrossamento più marcato e una più facile coltivazione nei comuni lagunari. E' attualmente la varietà di radicchio più coltivata e consumata in Italia, anche se il disciplinare I.G.P. ne prescrive la coltivazione nei soli comuni di Chioggia, Cona e Cavarzere (VE).
Il Radicchio rosso di Verona è stato selezionato alla fine degli anni '50 direttamente dal Radicchio rosso di Treviso. Viene coltivato in molti comuni della provincia scaligera (Albaredo d'Adige, Arcole, Bevilacqua, Bonavigo, Boschi Sant'Anna, Bovolone, Casaleone, Castagnaro, Cerea, Cologna Veneta, Concamarise, Erbè, Gazzo Veronese, Isola della Scala, Isola Rizza, Legnago, Minerbe, Nogara, Oppeano, Pressana, Roverchiara, Roveredo di Guà, Salizzole, Sanguinetto, S. Pietro di Morubio, Sorgà, Terrazzo, Trevenzuolo, Veronella, Villabartolomea, Zimella), con alcune zone limitrofe del Vicentino (Asigliano Veneto, Noventa Vicentina, Poiana Maggiore, Orgiano, Sossano) e del Padovano.
Due altre varietà derivano da selezioni locali del Radicchio variegato di Castelfranco: il Radicchio variegato di Maserà, coltivato nei Comuni di Borgoricco, Camposampiero, Loreggia, Maserà, Massanzago, Piombino Dese e Trebaseleghe (PD), e il Radicchio variegato di Lusia, coltivato nei dintorni del paese polesano. La difficile coltivazione di entrambe le varietà ne sta purtroppo decretando la progressiva scomparsa.

derivazione dei radicchi veneti
Figura 6: derivazione dei radicchi veneti. Da: Il Radicchio rosso di Verona - Aspetti tecnici ed economici di produzione e conservazione, Veneto Agricoltura 2002

L'endivia nei Discorsi sopra Dioscoride di Pier Andrea Mattioli (1544).
Figura 7: L'endivia nei Discorsi sopra Dioscoride di Pier Andrea Mattioli (1544).

BIBLIOGRAFIA

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AA. VV., 2002 - Il Radicchio rosso di Verona - Aspetti tecnici ed economici di produzione e conservazione, Veneto Agricoltura.
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http://www2.regione.veneto.it/videoinf/rurale/prodotti/radicchio_vr.htm

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