Raboso Piave

Informazioni storiche

Sinonimi: Friulara (PD), Friularo (PD), Friulara di Bagnoli, Cruajo, Rabosa Friulara, Raboso nostrano, Rabosa nera.

 

Vitigno ad uva nera, oggi coltivato nel Veneto e nel Friuli. Secondo l’opinione prevalente, il Raboso deriverebbe dalla domesticazione diretta di viti selvatiche (Pollini, 2006), il cui habitat naturale è rappresentato dalle sponde fluviali; ciò spiegherebbe l’ottimo adattamento alle zone golenali di pianura con suoli ghiaiosi alluvionali.

Le prime annotazioni riguardanti il Raboso risalgono probabilmente al XIII secolo, quando veniva generalmente indicato come Vinum Plavense (Calò, Paronetto, Rorato, 1996); la maggior parte degli autori ritengono infatti il Raboso originario della bassa valle del Piave. Il nome Raboso pare derivare dal termine dialettale rabioso oppure sgarboso, come il Ruzzante (1521, Prima oratione) definisce il vino pavano, in riferimento alla caratteristica astringenza e alla tardiva maturazione.

Le prime citazioni storiche dimostrano una forte diffusione di questa varietà in tutte le zone di pianura dall’Istria al Piave, quindi ancora a Ovest fino al Padovano dove, nella zona di Bagnoli, sarebbe stato introdotto col nome di Friularo nel 1600 (Pollini, 2006).

Giacomo Agostinetti di Cimadolmo (1679) citò le due varietà Rabosina e Rabosazza, entrambe di vendemmia tardiva per essere “garbe di natura”. In una nota d’inventario del 1693 del Vescovo di Concordia Paolo Valleresso il Raboso viene citato, unico vino dell’elenco dotato di un proprio nome, tra quelli prodotti nel Trevigiano (Calò, Paronetto, Rorato, 1996).

I pareri sulla qualità del Raboso furono sempre discordanti. Ad esempio, nel 1772, in occasione della prima riunione dell’Accademia di Agricoltura di Conegliano, Pietro Caronelli lamentò la ricostituzione del patrimonio viticolo distrutto dalle gelate del 1709 con “l’intemperante introduzione della acidissima Rabbosa”. Nella stessa occasione, l’accademico Giovanni Nardi sostenne tuttavia la necessità di produrre vino rosso “robusto e forte”, in quanto preferito dal mercato veneziano e, soprattutto, dotato di una maggiore resistenza al trasporto. Indicava quindi nella Rabosa la vite “senza confronto la più fruttifera, che più resiste alle intemperie delle stagioni, alla rigidezza degli Inverni, e che alligna presso che tutti i terreni”. In effetti, il mercato veneziano prediligeva di gran lunga i vini forti, eventualmente da annacquare, rispetto ai vini cosiddetti gentili come schiave, friulane, negresole, bozzere. Nelle parole di E. Zorzi, il Raboso del Piave era “vino bonario senza sdolcinature, aspretto senza acredine, robusto senza violenza, e riassume all’ingrosso i caratteri fondamentali del popolo che lo coltiva e lo consuma” (Calò, Paronetto, Rorato, 1996).

Il Raboso era coltivato anche nel Padovano, col nome di Friularo. Con questo nome venne cantato nel ditirambo El vin friularo de Bagnoli dal poeta veneziano Ludovico Pastò, che alla fine del ‘700 esercitava la professione medica nel paese padovano: “Fra i vini el più stimabile / el più bon, el più perfeto / xe sto caro vin amabile / sto friularo benedeto”. Nel fervore poetico, ma forse anche seguendo una tradizione, Pastò attribuì l’introduzione di questo vino nell’Italia nordorientale nientemeno che a Giulio Cesare che lo portò a Udine, da dove venne poi diffuso a Bagnoli, dove trovò l’ambiente ideale. In realtà, l’introduzione sarebbe dovuta ai nobili Widmann e databile alla metà del XVII secolo. Anche il Friularo, allora considerato distinto dal Raboso, era considerato dai Veneziani “vin da viajo”, “vino da viaggio”, per la sua resistenza al trasporto che lo rendeva adatto all’esportazione.

La Cruaja (Gruagia, Cruaglia), altro sinonimo del Raboso che evidenzia le difficoltà di maturazione dell’uva, era coltivata anche nel Vicentino, soprattutto nei dintorni di Bassano e Marostica (Acanti, 1825) e presso Fara Vicentino (Alverà, 1829): “Ottima a mangiare; l’uso la riserba per vino, che dàllo squisito se sola, lo acconcia se ottenuto con altre uve. Nella composizione del rinomato Breganze entra in piccola dose per donargli l’aurato colore, ed accrescergli l’amabilità del sapore”. L’uva Rabosa venne elencata anche nel Catalogo ed illustrazione dei prodotti primitivi del suolo e delle industrie della Provincia di Vicenza offerte alla pubblica mostra nel Palazzo del Museo Civico il 25 agosto 1855. È citata anche una Rabosa bianca.

Nel 1864 Alvise Semenzi scrisse del vino ottenuto dalle “uve rabose che “hanno vanto di squisite, specialmente nelle ville di Conegliano, Vazzola e Maren”, indicando come la produzione fosse destinata soprattutto al mercato veneziano (Treviso e la sua provincia).

Ancora nel 1870, nell’Ampelografia generale della provincia di Treviso, la Rabosa nostrana era considerata tra le migliori varietà per la produzione di vino fino. Dai dati forniti da Carpené e Vianello (1874) risulta che il Raboso era il più diffuso tra i vini rossi trevisani, coltivato in 30 comuni con una produzione annua di 14.000 hl. Morten (1895) raccomandò il Raboso tra i pochi vitigni da coltivare nel Coneglianese in modo da limitare la “babilonia che regna nella nostra enotecnica (1895: Sulla viticoltura ed enologia Coneglianese. Riv. Vitic. Enol. Conegliano, a. 1, 12). Carpené descrisse il Raboso Piave come un vino “troppo austero, molto ricercato nelle province di Treviso e Venezia, ma soprattutto per migliorare vini troppo deboli (1873), a riprova del fatto che la polemica sull’effettiva qualità del Raboso non si era ancora spenta.

A fine ‘800 il Friularo risultava il vitigno rosso dominante in Polesine (Bisinotto C., 1880). Gli atti dell’Inchiesta Jacini testimoniano come la Rabosa per aver dimostrato buona resistenza all’oidio, veniva preferita anche nei nuovi impianti nel Trevisano. Nel 1901 Zava indicò la Rabosa del Piave (= dal Pecolo rosso, Rabosa friulana) come coltivata nelle province di Venezia, Vicenza e Treviso (Sinonimi: Cruaia).

Anche dopo le devastazioni provocate dalla fillossera, il Raboso, produttivo e bene accetto al consumo locale, continuò ad essere impiegato nelle ricostituzioni viticole (Mondini, 1903: I vitigni da vino stranieri coltivati in Italia. Barbera, Firenze). In effetti, la sua rusticità gli fece passare quasi indenne la crisi fillosserica, perdendo solo un po’ di terreno a causa della preferenza di molti viticoltori per le cultivar francesi, in particolare i Cabernet. Fino al periodo tra le due guerre il Raboso era comunque il vitigno più coltivato nelle terre del Piave.

Nelle indicazioni contenute nel primo Indirizzo viticolo per le province venete della Stazione Sperimentale per la Viticoltura e l’Enologia di Conegliano del 1931 (Dalmasso, Cosmo, Dall’Olio), il Friularo venne fortemente consigliato per la provincia di Padova. Nel 1950 Montanari e Ceccarelli ricordarono la Rabosa tra i vitigni diffusi nella pianura trevigiana, raccomandandone l’uso soprattutto in Sinistra Piave, e il Friularo, comunissimo nel Padovano (Conselvano, Bagnoli), dove pure si consigliava la coltivazione.

Nel secondo dopoguerra Cosmo (1947-49) indicò il Raboso come diffusissimo in gran parte della provincia di Treviso, nel Veneziano e nel Padovano, qui col consueto sinonimo di Friularo. Nelle sue successive raccomandazioni Cosmo (1959) comprese il Raboso Piave tra le uve complementari limitatamente alla zona classica di coltura, nei mandamenti di Conegliano e Oderzo.

I Regolamenti CEE 2005/70 e 3800/81 raccomandarono il Raboso Piave per le province di Padova, Treviso e Venezia. Rientra negli uvaggi di quasi tutti i DOC Bagnoli (PD) (Friularo in diverse varietà, Bagnoli di Sopra bianco, rosso e passito, in diverse varietà) e in alcune delle DOC Corti Benedettine del Padovano, Riviera del Brenta, Colli di Conegliano, Colli Euganei, Montello e Colli Asolani e naturalmente Piave, soprattutto nel Piave Raboso, spesso assieme al Raboso Veronese. Una peculiarità è l’indicazione vendemmia tardiva riportata su alcune etichette, che attesta che almeno il 60% dell’uva utilizzata è stato raccolto dopo la solennità di S. Martino (11 novembre).

È iscritto al Registro Nazionale delle Varietà di Vite col numero 203.

 


Bibliografia

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